10 apr 2009

Elvira, Caterina, Enrichetta...e tanti altri...


Sono almeno un migliaio, soprattutto anziani, quelli che non vogliono
lasciare le case
«Non ci spostiamo, ci sono i nostri gatti»
Le ultime due donne della città distrutta
Elvira e Caterina, madre e figlia, due delle irriducibili che non
vogliono andarsene: la nostra vita è qui

Da uno dei nostri inviati  MARCO IMARISIO

L’AQUILA—«Chi, io? Ma non è vero. Cioè, insomma. Diciamo che sono
salita solo per dare da mangiare ai gatti, prendere le medicine di
mamma, la mozzarella e la Simmenthal dal frigo, lo zucchero dal
ripiano, qualche vestito dall’armadio, innaffiare le piante, già che
c’ero mi sono lavata, poi sono scesa qui sotto. Tutto di fretta, si
capisce». Il finanziere con il casco da minatore scuote la testa,
sconsolato. Allarga le braccia e torna sui suoi passi. Davanti alla
faccia da monella di Caterina l’unica cosa da fare è arrendersi.

Ogni mattina le chiedono di andare in tenda, lei e sua madre Elvira.
La risposta non cambia, non cambierà. «Grazie, ma non vogliamo
allontanarci. Se esci non rientri, lo dice anche un proverbio
abruzzese. E poi senza sistemazione per Leone, Coccolino, Fuffetto,
Miciotto e Tarchiatello, i nostri gatti, non possiamo muoverci.
Gradisce un caffè?». Sono rimaste. Gli unici due esseri umani che
ancora vivono nel centro di L’Aquila, due chilometri quadrati di
macerie e rovine, che loro guardano dall’alto di piazza San
Bernardino, il punto più alto della città vecchia. Tutti gli altri
sono stati sfollati. Elvira e Caterina Marzoli non ne hanno neppure
parlato. Non è stata una decisione, ma un gesto naturale e necessario,
come respirare. Rimaniamo qui. La casa che si affaccia sulla scalinata
di San Bernardino, l’appartamento al piano terra, le cornici con le
foto di Piero, marito e papà amatissimo, le finestre affacciate sulla
basilica, i loro gatti, il cane Chicco, trovato sette anni fa nella
piazza su cui da 45 anni si dipana la loro esistenza. Le loro radici,
i loro oggetti. Quello per cui sentono valga la pena di vivere.

Madre e figlia si guardano con tenerezza, quasi a confessare una
marachella. Tecnicamente sono inattaccabili. La casa è diventata una
dépendance dalla quale si entra e si esce, loro «abitano » il gazebo
di legno del bar di fronte alla basilica a dieci metri dal portone. Il
proprietario ha lasciato le chiavi del bagno e al mattino passa per
fare il caffè. Dormono nella Panda grigia parcheggiata sotto casa, a
distanza di sicurezza. Quando ce n’è bisogno, Caterina sale in casa.
Non hanno bisogno di altro, di nessuno. Si fanno compagnia, si
bastano. Elvira si muove con fatica, due ernie all’anca non operabili,
ha 82 anni e uno sguardo pieno di tenerezza. Ancora si commuove nel
ricordare il suo Piero, che faceva il portiere di notte al Gran
Panorama, un albergo che non c’è più. Se n’è andato nel 1992, tradito
da un male incurabile. Riesce a mettersi in piedi reggendosi su un
bastone, poi lo solleva per disegnare un cerchio intorno alla piazza.

«Mio padre era il barbiere di via Roma, abitavamo sopra al negozio. In
quella strada ho conosciuto mio marito. Ci siamo sposati nella chiesa
di San Pietro, a metà della via, dove sono stata battezzata,
comunicata e cresimata, e poi ho battezzato e cresimato Caterina.
Quarantacinque anni fa ci siamo trasferiti in questa casa, a cento
metri da quella dove vivevo prima. Ho sempre fatto la sarta per la
gente del quartiere. Non mi sono mai allontanata. Dove vuole che vada,
adesso, alla mia età?».

Gli abruzzesi hanno un rapporto forte con le loro case, con la «roba»
che ci sta dentro, considerata il riassunto di una vita. «Volontà
ferma, persistenza e resistenza», incarnate nell’amore per la propria
abitazione. Benedetto Croce considerava questo attaccamento come una
conseguenza dell’emigrazione, di una vita stentata che rendeva ancora
più necessario e idealizzato il sogno di un nido a cui ritornare. È un
tratto distintivo antico e bellissimo, ma oggi è soprattutto un
problema, uno strazio ulteriore. Secondo la Croce rossa, nei piccoli
paesi intorno a L’Aquila ci sono almeno un migliaio di persone, in
prevalenza anziani, che non vogliono abbandonare la loro dimora.
Alcuni si sono accampati davanti alle macerie, per vegliarle.

A San Pio delle Camere, Enrichetta, 86 anni, ha preso a bastonate i
volontari della Protezione civile. Cercavano di farla uscire da una
casa con una parete crollata per metà. «Se ne occupi la forza
pubblica», hanno detto siglando la resa. Ce ne sono tante di storie
come queste, piccole ribellioni che sembrano incoscienza ma
rappresentano anche un tentativo di sopravvivenza. Quassù in piazza
San Bernardino, la famiglia Marzoli si prepara per la notte. Nel
gazebo adibito a salotto c’è anche la televisione. Elvira lo ha visto
al tg, che via Roma e la chiesa di San Pietro sono state cancellate,
solo detriti e calcinacci. Ma non è vero che il suo mondo è stato
cancellato, il suo mondo vive negli oggetti che stipano questo
appartamento, anche nelle sue mura umide. Una parete è crepata,
l’armadio con i vestiti ha attraversato la stanza da letto per
schiantarsi sulla parete opposta. Caterina è nata nel giugno del 1958,
durante l’ennesimo terremoto che ha colpito L’Aquila. «Abbiamo paura,
certo. Martedì si sono spaventati anche i gatti, non hanno toccato le
ciotole. Adesso gli do il latte. Ma faccio presto, prometto». Dopo
cinque minuti, esce dal portone tenendo in mano un libro di Forattini
e i ferri da uncinetto per la copertina che sta facendo per la figlia
di una sua amica. «Così faccio passare il tempo». E il suo sorriso non
sembra un segno di incoscienza, ma di speranza.

Marco Imarisio
09 aprile 2009

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